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Accetto il mio errore e quello altrui?

Accetto il mio errore e quello altrui?

Nella nostra società, al lavoro come a casa, sembra che ci sia richiesto di essere sempre performanti, brillanti, di far tutto bene e rapidamente. E così rincorriamo un modello di essere umano che crediamo sia l’ideale da raggiungere: un essere umano smagliante, un super-eroe che corre, che si gode i successi, che sa già tutto.

Siamo capaci di sbagliare? E di accettare di aver sbagliato?
Mi rendo conto che queste sono domande che, soprattutto in ambito lavorativo, sono decisamente e volontariamente eliminate. Si pensa che gli errori portino a perdite di profitto, non a caso spesso si ricerca personale che abbia già esperienza nel settore (così che eviti di sbagliare) e chi occupa posizioni di coordinamento sta ben attento – a volte purtroppo generando un clima di paura o aggressività – che il suo team non commetta errori.

E’ chiaro che sbagliare, soprattutto in certi contesti, non è piacevole e può risultare dannoso, ma l’aver commesso un errore è dovuto a una competenza importante: aver saputo rischiare e mettersi in gioco. Ovviamente è ben diverso l’errore dovuto a poca umiltà, a una concezione di sé irrealisticamente positiva, che porta a non vedere il rischio che si sta assumendo o non accetta il confronto con gli altri punti di vista. A volte, però, anche in questi casi l’errore conduce ad aprire gli occhi e a ricominciare.

Una pratica giapponese, chiamata kintsugi, ci insegna metaforicamente come da una ferita possa nascere la perfezione. Concretamente consiste nell’utilizzo di oro o argento per riparare oggetti rotti in ceramica, saldandone insieme i pezzi. Il risultato è strabiliante dal punto di vista sia artistico (si creano pezzi unici e incredibili) sia economico.

Oggi che fine ha fatto il valore profondo dell’errore e dei passi che ne conseguono?
La saggezza popolare ci dice che “errare è umano”. Parole sacrosante! E non è solo umano, è vitale. Come possiamo apprendere se non cadiamo, se non ci sbucciamo le ginocchia? Come possiamo dar forma alla nostra unicità se non rompiamo dei pezzi, per poi saldarli insieme? In genere di fronte all’errore, o non lo si ammette nemmeno a se stessi o si cerca di nasconderlo agli altri, oppure lo si vive come un fallimento e una vergogna.

In realtà, ogni momento della vita è buono per imparare qualcosa di sé, del lavoro, degli altri.
Avete mai visto un bambino quando impara a camminare o ad andare in bici? Certo è doloroso cadere, ci si spaventa, ma poi la voglia di capire come imparare l’equilibrio è più forte. E ciascuno trova il proprio modo di rialzarsi dalle cadute. Non c’è un modo uguale per tutti per affrontare gli errori, ma il primo passo per tutti è quello di riconoscere lo sbaglio, di guardarlo serenamente, come parte del processo di crescita.

Frequentemente gli errori sono visti pene da scontare, piuttosto che come punti da cui ripartire. Nessuno è perfetto, lo sappiamo tutti, ma poi ci comportiamo diversamente, perché forse fa troppo male scoprirsi limitati o farlo vedere agli altri, con la paura di non essere approvati. Non si perde nulla sbagliando, così se c’è da chiedere scusa e da rimediare, piuttosto si guadagna in consapevolezza e si fa un salto di qualità. Un altro detto popolare recita “sbagliando s’impara”…

Se non siamo convinti del fatto che incontrare i propri e altrui limiti (talvolta sfiorarli, talvolta scontrarsi pesantemente) sia un valore vitale, allora insorgono delle complicazioni, che probabilmente sono ben peggio dell’errore in sé.

Una di queste è il senso di colpa o di inadeguatezza. Non mi riferisco allo sconforto che deriva dallo sbagliare: la tristezza è un’emozione che può emergere quando ci si accorge di aver commesso un errore ed è molto utile, perché sostiene un soffermarsi dentro di sé e un confronto con gli altri. Ma se lo sconforto permane a lungo e prende la piega del “piangersi addosso”, se si tramuta in paura di non essere all’altezza del compito genitoriale, diventa allora senso d’incapacità e colpa… e sarà sempre più difficile lavorare serenamente e con profitto.

A volte si reagisce invece con rabbia ai propri errori, perché non li si vuole vedere. Anche questo può essere utile: la rabbia sostiene una spinta in avanti, il poter andar oltre,  facendo tesoro di ciò che è accaduto. Ma se la rabbia permane e sputar veleno verso di sé o gli altri diventa un modo per non so-stare (scritto proprio così col trattino in mezzo, a indicare il “saper stare” soffermandosi) a contatto con ciò che si è, con il proprio sentire di aver fallito e col senso d’inadeguatezza, ma anche con la propria capacità di rialzarsi, allora ci si tramuta in una fortezza ricoperta di filo spinato che non permette a nessuno di avvicinarsi, nemmeno a se stessi!

Contesti in cui si ha la possibilità di mettersi in gioco, dove si dà la possibilità a se stessi e agli altri di incontrare i propri limiti e, quindi, anche di sbagliare, sostengono processi lavorativi efficaci e benessere personale e di gruppo, portano anche a innovazioni nate proprio dagli errori, consentono di sostenere la crescita professionale delle persone, generano meno assenteismo e, di fatto, anche meno errori!

di Giulia Cavalli, psicologa psicoterapeuta, psicoanalista

Il sasso
(Anonimo)

La persona distratta vi è inciampata.
Quella violenta, l’ha usato come proiettile.
L’imprenditore l’ha usato per costruire.
Il contadino stanco invece come sedia.
Per i bambini è un giocattolo.
Davide uccise Golia e
Michelangelo ne fece la più bella scultura.
In ogni caso, la differenza non l’ha fatto il sasso, ma l’uomo.
Non esiste sasso sul tuo cammino che tu non possa sfruttare per la tua propria crescita.

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